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19.09.2025 / 20.09.2025
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Streaming: Chi sfrutta davvero chi...?

Streaming: Chi sfrutta davvero chi...?
Streaming: Chi sfrutta davvero chi...?

di Olaf Adam

Con Napster e Deezer è iniziato tutto, con Spotify è diventato sempre più conosciuto, e i lanci spettacolari di Tidal e Apple Music hanno portato definitivamente l’argomento alla ribalta del mainstream: lo streaming musicale è una cosa enorme, e per molti rappresenta nientemeno che il futuro della distribuzione musicale. Ma allo stesso tempo sono nate forti proteste. Molti musicisti si lamentano dei bassi guadagni dallo streaming e citano importi nell’ordine di frazioni di centesimo per stream. Alimentata dalla cultura rapida e frammentaria dei social media, questa accusa viene ripetuta migliaia di volte e ormai per molti viene considerata un dato di fatto. Si parla di sfruttamento degli artisti, persino di moderna schiavitù digitale. I colpevoli? Ovviamente, secondo questa logica, sono i servizi di streaming avari e i loro clienti, che sostengono questa situazione milioni di volte. Mettersi a riflettere? Inutile. Informarsi da soli? Troppo faticoso! Eppure, sarebbe relativamente semplice smontare questa costruzione mentale in pochi passaggi. Ed è proprio ciò che il Berklee Institute of Creative Entrepreneurship ha fatto recentemente nello studio Rethink Music. Iniziamo dall’inizio:

Con chi hanno stipulato i servizi di streaming i loro contratti, e a chi pagano di conseguenza il denaro?

Agli artisti? Sì, se si chiamano Madonna, Jay-Z o Beyoncé e detengono ampi diritti sulle proprie canzoni. Ma per il 99% dei musicisti nel mondo questo non vale. Hanno infatti ceduto i diritti di sfruttamento alle loro etichette, ossia alle case discografiche. Hanno firmato contratti in cui è stabilito chiaramente quale percentuale dei ricavi spetti loro. Quindi i servizi di streaming non hanno nulla a che fare con questo: versano semplicemente le loro quote alle etichette.

I servizi di streaming si arricchiscono a spese degli artisti?

Eh..., no. Certamente le aziende vogliono guadagnare dallo streaming, ed è un loro diritto. Trattengono una certa quota dei ricavi provenienti da pubblicità e abbonamenti, il resto viene distribuito in base al numero di riproduzioni. Questa percentuale, circa il 30%, non è affatto esagerata, visto che è esattamente la stessa che, ad esempio, un acquisto su iTunes trattiene per sé. E gli stessi fornitori di streaming ammetterebbero che questa quota è piuttosto bassa, visto che finora nessuno di loro sembra aver mai chiuso un bilancio in attivo, dato che tutti i ricavi vengono reinvestiti in marketing e nello sviluppo delle infrastrutture tecniche. Circa il 70% dei ricavi dello streaming vanno quindi ai detentori dei diritti delle opere. E questi, nella maggior parte dei casi, sono proprio le etichette.

Lo streaming è semplicemente troppo economico e svaluta l’opera musicale degli artisti?

Questa è sicuramente, in parte, una questione di autoregolamentazione dei mercati, ma anche di punto di vista. È vero che ci sono sempre state persone disposte a spendere molti soldi per la musica. Ma ce ne sono sempre state molte di più che non erano disposte a farlo. Questo fenomeno ha raggiunto il suo apice alla fine degli anni ’90 e all’inizio dei 2000, quando milioni di MP3 scambiati illegalmente hanno realmente danneggiato il mercato musicale e gettato l’industria in una profonda crisi. Tuttavia, non bisogna dimenticare che negli ultimi anni i ricavi musicali a livello mondiale sono tornati a crescere. Questo è dovuto in gran parte alla crescita dello streaming. Bisogna anche essere realistici nell’analizzare questa situazione. Per un appassionato di hi-fi non è certo insolito spendere ogni mese 30, 40 o più euro per la musica. E nessuno lo impedisce dal continuare a farlo. Tuttavia, nella popolazione generale questa disponibilità non esisteva più da molto tempo. Solo grazie ai servizi di streaming questa tendenza si è invertita. In media, un abbonato a Tidal, Spotify e simili spende circa 120 euro all’anno. Ogni anno. È una somma importante, certamente superiore a quanto molti clienti spendevano per la musica solo pochi anni fa. L’aumento dei ricavi dell’industria musicale dimostra questa evoluzione positiva.

Gli artisti ricevono semplicemente troppo poco denaro per ogni stream?

Purtroppo è vero. Ma la colpa non è dei “cattivi” servizi di streaming, bensì delle etichette. E, in parte, va detto anche degli artisti stessi; alla fine hanno firmato loro i contratti. Tuttavia, il comportamento di molte (tutte?) le etichette rasenta la sfacciataggine. Gli artisti ricevono solo la quota contrattualmente prevista dai ricavi diretti dello streaming. Le etichette però guadagnano anche su altri livelli dal tema streaming. Ad esempio, spesso esiste una sorta di tariffa base che i servizi di streaming pagano alle etichette semplicemente per poter mettere a disposizione il loro catalogo. Non è chiaro se e in che modo i singoli artisti partecipino a questi ricavi. Alcune etichette, inoltre, si sono assicurate quote societarie nei diversi servizi di streaming e, in cambio, hanno accettato distribuzioni ridotte per ogni brano riprodotto. In pratica, questo significa che in questi casi le etichette guadagnano il doppio, ma condividono solo una parte ben più piccola con gli artisti.

Quindi, chi sta sfruttando chi?

Cari Taylor Swift, cari imitatori e puntatori di dito. Non tutto nella vita è così semplice da poter essere riassunto in un tweet da 140 caratteri. E risposte semplici a temi complessi sono spesso pericolose. Se proprio si vuole tentare di riassumere la questione, si può dire così: non sono i servizi di streaming a sfruttare gli artisti, ma le etichette. Un ringraziamento va a John Darko di digitalaudioreview.net, che ha segnalato lo studio menzionato sopra.

Diagramma che mostra la distribuzione dei ricavi dello streaming musicale tra autori, editori e artisti tramite PRO e aggregatori.
Diagramma sulla distribuzione dei ricavi dello streaming: Illustra i flussi delle royalty dagli stream on-demand tramite PROs e aggregatori verso autori, editori e artisti.